MONDO RURALE, TERRA BRETTIA E REALTÀ PRODUTTIVE

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view post Posted on 12/1/2011, 19:58




MONDO RURALE, TERRA BRETTIA E REALTÀ PRODUTTIVE - Cesare Di Cola

(in Pianeta Calabria. Tradizioni contadine e lavorazioni tipiche, edito dalla Provincia di Cosenza, 2001)


1. Componenti etniche della terra brettia tra vincoli dell'abitare e dinamiche della vita produttiva.

L'identità antropologica, le caratteristiche etniche di un determinato popolo risultano, inevitabilmente, influenzate dalla morfologia del territorio che lo stesso abita. La diversità degli ambienti naturali fornisce all'agire umano occasioni diseguali, vincoli e resistenze differenti. Il geografo Paul Vidal de la Blache sosteneva che le forze di organizzazione del territorio, attraverso le quali si esplicitano i “generi di vita”, scaturiscono dall'incontro dei fattori ambientali e dell'azione umana[1].
Il territorio della provincia di Cosenza, crogiuolo di genti, civiltà, idiomi, di cui custodisce ancora l'essenza, ha da sempre legato il suo aspetto fisico alle esperienze culturali e alle forme organizzativo-operative di nascenti populi.
Congiunta, a settentrione, all'Appennino meridionale attraverso il massiccio del Pollino, e protesa nel bacino del Mare nostrum, la provincia cosentina presenta una realtà geografica frantumata e disomogenea. La lunga e diversificata fascia costiera fa da contraltare all'asperità dell'area interna, caratterizzata da acrocori e angustie vallate. Lungo il versante occidentale, sul Tirreno, i pendii colligiani, popolati di uliveti, vigneti e agrumeti, si elevano d'un tratto, offrendo un esiguo spazio costiero, in un susseguirsi di insenature e promontori. A levante il declivio dei monti scende verso il mare Ionio con un'inclinazione solo un po' meno ripida: spiagge basse e uniformi (intervallate, soprattutto nelle vicinanze delle fiumare, da macchie rigogliose di vegetazione) si alternano a golfi e anfratti creati da rocciosi speroni che precipitano in mare. La realtà orografica conferisce alla regione connotati originali; la catena costiera e i gruppi montagnosi del Pollino e della Sila delimitano zone diverse per condizioni climatiche, idrografiche e geologiche, generando paesaggi mutevoli e contrastanti.
Antinomie complici, fin dall'antichità, nell'esprimere originarie nationes contrapposte. La Regione, che solo nel VII secolo d.C. acquistò l'appellativo di Calabria (mutuato definitivamente dalla penisola salentina), fu teatro della fiorente civiltà della Megale Hellas, costituendo, nel contempo, l'antico ager Bruttiorum.
Il quadro etnico anteriore all'espansione coloniale dei Greci, che si palesa dalla tradizione leggendaria, dalla storiografia greca e dalla documentazione archeologica, presenta tratti tanto lacunosi e opinabili quanto suggestivi. Gli Enotri, tra le più antiche configurazioni socio-politiche, probabilmente abitarono in una vasta area che comprendeva, oltre l'attuale Calabria, una parte della odierna Basilicata fino alle zone più meridionali della Campania. Dionisio di Alicarnasso (I secolo a.C.) riconosce in questo popolo gli Arcadi che, molte generazioni prima della guerra di Troia, attraversato l'Adriatico, si stanziarono in Italia, guidati da Enotro[2], figlio di Licaone. Secondo lo storico siracusano Antioco (V secolo a.C.) alla stirpe degli Enotri apparteneva il popolo del re Italo[3]. Quest'ultimo appare in alcuni documenti come il sovrano degli Ausoni e dei Siculi. Aristotele (IV secolo a.C.) narra:

[...] re degli Enotri, da lui questi presero in seguito il nome di Itali, come pure venne chiamata Italia la regione da loro abitata, quella propaggine delle coste europee delimitata a nord dai golfi di Sant'Eufemia Lamezia e di Squillace, così vicini tra loro, che distano solo una giornata di cammino. Di questo Italo dicono che abbia fatto degli Enotri, di nomadi che erano, degli agricoltori stabili, e che abbia imposto loro nuove leggi, istituendo tra l'altro per primo le sissizie (Politica, VII,10,2-3).

Le esperienze culturali di questi ed altri remoti popoli hanno, di certo, contribuito al processo di formazione di etnie e civiltà nuove; a questo influsso furono soggette sia la realtà delle poleis italiote che quella di una gente dall'incerta origine come i Brettii.
I coloni greci dimostrarono non solo una particolare attitudine alla convivenza con popolazioni di tradizione diversa, ma anche una profonda conoscenza dei luoghi e delle relative risorse. La cosiddetta “colonizzazione storica” (all'inizio della seconda metà dell'VIII secolo a.C.)[4] produsse una autorevole civiltà, che ebbe una fisionomia singolare e distinta da quella greca, e i cui fasti la Calabria non è più riuscita a rivivere se non nei suoi reperti archeologici. Poche città hanno avuto, nel mondo classico, la fama goduta da Sibari, la terra favolosa descritta da Euripide nelle Troiane e distrutta dai Crotonesi nel 510 a.C.[5] Le “favole sibaritiche”, che al tempo di Aristofane (445-385 a.C.) intrattenevano nei banchetti gli Ateniesi, appartengono ad un genere letterario fortunato per i suoi connotati umoristici e dilettevoli. In realtà dalle stesse emergeva, nei confronti di Sibari, una visione di vita molto critica, che prese le mosse dalla scuola pitagorica di Crotone, negli ultimi decenni del VI secolo a.C.[6] Ciò nonostante, da queste narrazioni si intravede una realtà ricca, capace di sviluppare spinte innovatrici in campo sociale ed economico, facendo leva su una agricoltura favorita dalla feracità del territorio e sfruttando un artigianato e un commercio che la rendevano fulcro degli scambi in tutto il Mediterraneo.
Dalla crisi del mondo magno-greco trovò spazio la vicenda storica dei Brettii, il cui processo di formazione appare contrassegnato dall'evoluzione di fenomeni di banditismo sociale e di interazione e acculturazione in una dimensione diacronica; un processo strettamente connesso alle particolari condizioni ambientali dell'attuale Sila (centro della confederazione fu Cosentia di cui Strabone parla come della metropolis Brettion). La realtà, dalla quale emerge questo antico popolo, esprime un modo di produzione basato sulla pastorizia e la silvicoltura; una realtà estranea e, a lungo, marginale a quella della Magna Grecia. Rapida la costituzione della gente bruttia come entità etnico-nazionale e autonoma, ravvisabile cronologicamente intorno al 350 a. C., così come la sua disgregazione, avvenuta tra la fine del III e gli inizi del II secolo a.C., in seguito alle vicende della guerra annibalica e alle conquiste dei Romani, che riproposero, sebbene in forme diverse, la centralità di un modo di produzione classico e la subalternità di quello agro-silvo-pastorale[7].
La Calabria del mito ellenico, crocevia di scambi commerciali e culturali, divenne provincia periferica, defraudata delle sue materie prime e destinata a vivere un lungo e lento processo di decadenza e isolamento. Un declino che, secondo Augusto Placanica, fu dovuto non tanto ad autonome evoluzioni proprie quanto al mutamento del quadro politico centrale o internazionale e alle relative condizioni sociali ed economiche di lungo periodo. In effetti, la “terra dei Bruzi” sconta il peso di fenomeni che vicende storiche, nonché fattori naturali, hanno imposto[8].
La nostra regione, fino al raggiungimento dell'Unità d'Italia, fu per molti (dai Goti ai Bizantini, dai Longobardi ai Musulmani, dal popolo di Federico II alla dinastia angioina e aragonese, e così via fino al governo spagnolo e a quello austriaco e borbonico) terra di conquista.
Il susseguirsi delle dominazioni comportò, per la gente calabra, periodiche spoliazioni e vessazioni; l'esigenza di difesa dalle scorrerie piratesche e le epidemie malariche costrinsero la popolazione ad abbandonare le piane costiere per arroccarsi nelle impervie zone interne, facendo i conti con una natura matrigna e vivendo per molti secoli in una dimensione del tutto isolata,

in un assetto divaricato fra storia - e necessità - degli insediamenti e dinamiche della vita produttiva, fra i vincoli dell'abitare e i bisogni del lavoro[9].


L'interesse sviluppatosi nella cultura europea per gli studi sociologici e antropologici ha trovato fertile humus nel cosentino e, più in generale, nella Calabria, una terra che, nonostante non abbia mai costituito stato politicamente autonomo, ha visto affermare (molti secoli addietro), presso i suoi abitanti, una coscienza della propria identità. Già nel 1577, lo storico napoletano Camillo Porzio, in una sua Relazione del Regno di Napoli, offre della Calabria Citra et Ultra un ritratto etnografico seppur generico e letterario[10]. D'altra parte, sin dai secoli XV e XVI, nella letteratura degli scrittori nati in questa regione, traspare la coscienza della calabresità (inglobante quella della cosentinità), la quale si va sottolineando non già in seguito a particolari processi politici quanto piuttosto attraverso percorsi culturali.
La consapevolezza che la Calabria fosse una regione con proprie peculiarità storiche risulta evidente nelle controversie letterarie dell'epoca, che vedevano gli scrittori calabresi ergersi decisamente a difesa della nobiltà della gente bruzia, contraddicendo le affermazioni denigratorie che contro di essa venivano mosse da molti scrittori per diffamare quei letterati calabresi che avevano osato criticarli.
Il codificatore e lo storico dell'idea del popolo calabro quale entità etnica ben definita risponde al nome di Gabriele Barrio, nativo di Francica e autore dell'opera dal titolo De antiquitate et situ Calabriae (1571), in cui la ridondante esaltazione della prosperità della regione viene mitigata dalla addolorata constatazione dell'impoverimento e del depredamento di essa, effettuati dai tanti regoli e tiranni.
Nel corso dei secoli, contro i pregiudizi atavici, l'autocoscienza degli eruditi della penisola calabra era insorta, senza negare le caratteristiche formanti il topos del popolo bruzio, ma modificandone il senso in un'accezione estimativa:

l'isolamento e la primitività erano diventate il consapevole orgoglio di una identità esclusiva, l'ostinatezza si era trasformata in proclamata tenacia e coerenza, e la violenza e l'aggressività erano venute giustificandosi in virtù d'un indomabile dichiarato senso dell'onore, da rispettare attraverso l'esercizio spietato della vendetta. [...] giudizio e pregiudizio sui calabresi, pertanto, trovavano nei calabresi stessi i propalatori di una connotazione fortemente identificante che, non a caso, riconosceva ai rudi bruzi di un tempo, a preferenza degli evoluti popoli magnogreci, una sorta di progenitura spirituale nella storia dell'etnia calabrese[11].


Nella prosa di illustri viaggiatori stranieri, che nel Seicento, nell'Ottocento, ma soprattutto nel Settecento visitarono l'estremo lembo della penisola italica, rivive, per lo più, l'interesse artistico e archeologico verso quelle zone che richiamano alla memoria l'antica civiltà mediterranea. Sull'altra realtà della regione, quella rude del suo ordito sociale, influenzato dall'ostilità e dall'angustia del territorio, si concentra l'attenzione di acuti osservatori settecenteschi. In questo filone, lontano da quella “letteratura da viaggio”, spesso approssimativa nelle descrizioni del tessuto umano, si innestano le grandi ricerche effettuate da Enti e Istituti o da singoli studiosi; non solo le inchieste del XVIII secolo (in modo precipuo di economisti napoletani ispirati alla cultura umanistica francese), ma anche quelle effettuate a cavallo tra l'Ottocento e il Novecento[12].
Tra i migliori interpreti dei problemi concreti della Calabria tardo- settecentesca, Giuseppe Maria Galanti individuò nel latifondo, nell'impaludamento dei litorali, nella mancanza d'infrastrutture e nella eccessiva pressione fiscale alcuni degli impedimenti alle possibilità di sviluppo della regione[13]. Il discepolo del Genovesi attaccò severamente sia la oziosa nobiltà feudataria sia la codarda condizione dei contadini, mentre cercò di canalizzare gli entusiasmi di una nascente borghesia, incline alle riforme, in un disegno di rigenerazione interna, che tuttavia rimase incompiuto. Fu proprio l'intellighenzia di estrazione borghese che, nel breve periodo dell'illuminismo riformatore e del giacobinismo, espresse un deciso rifiuto del mito dell'eroica stirpe brezia e una forte condanna verso l'ignoranza e l'arretratezza di un mondo che andava assolutamente trasformato e redento.
Ben presto, nel periodo compreso tra il 1799 e il 1815, l'unificante caratterizzazione del calabrese ribelle e passionale ritornò a coinvolgere classi sociali, totalmente in antitesi tra loro, tramite un processo di nobilitazione condizionato dagli eventi politici e impregnato delle nuove acquisizioni dello Sturm und Drang.
Nella seconda metà dell'Ottocento, la calabresità, ricondotta alla primitiva connotazione di disvalore, e della quale, secondo la communis opinio, il brigantaggio plebeo costituisce espressione, diventa la sintesi di un mondo di perdenti e di miseria, di ignoranza e di fatalismo. All'interno dello stato unitario, inevitabilmente, la problematica e la specificità della terra degli antichi Brettii confluisce nella questione meridionale, in una progressiva frantumazione della unitaria identità. L'omogenea civiltà agraria, garante di quella unità, fu sconvolta nel suo assetto da un diverso sistema di produzione e dal fenomeno emigratorio; evento, quest'ultimo, che contribuì al perdurare dell'antico orgoglio di essere calabrese e alla creazione, nell'immaginario collettivo, di una Calabria che cozzava con quella reale, così come si presentava al ritorno. Quella realtà emarginata, fatta di miseria e di arretratezza, entrava negli scritti degli autori calabresi del Novecento.

La Calabria offre agli scrittori un quadro sociale ed economico in disfacimento, determinato dal giolittismo prima e aggravato dal fascismo poi. Lo squilibrio tra Nord e Sud si approfondisce, l'emigrazione comincia a prodursi come fenomeno di massa, l'analfabetismo raggiunge cifre altissime e generalizzate, il latifondo raccoglie un esercito di sventurati, costretti ad una fatica bestiale e mal ripagata, e dovunque si colgono i segni della violenza padronale: nella campagna, come nell'officina e finanche nella vita privata dei figli, degli stracci e delle notti senza luce[14].


Lo stereotipo del calabrese si ripresenta legato ad una concezione di oggettiva ingiustizia e discriminazione in gran parte della letteratura del XX secolo, da molti criticata in quanto vittimista, lamentosa di una obliterata memoria, fotografia di un realismo che il più delle volte non fornisce prospettive di mutamento.
Risulta evidente che l'idea della Calabria e dei calabresi, così come si è costruita nel corso dei secoli, sia nei suoi aspetti positivi che negativi, rappresenta la caratterizzazione, a volte falsa ed imposta, della storia della regione, una specifica identità che ha visto non tanto trasformazioni nei concetti quanto una diversità di destinatari e, quindi, di visioni assolutamente contraddittorie.
Solo di rado, e soprattutto recentemente, l'analisi socio-economica e demoantropologica è giunta a una visione più complessa. Molto spesso la produzione narrativa si incentra su vicende e scenari rurali con sfondi tracciati dall'orgoglio regionale e dal folklore dei buoni sentimenti di un mondo perduto; quasi sempre la cosiddetta cultura ufficiale, sia quella forestiera che quella autoctona, manipolando un archetipo etnografico come strumento funzionale a propri fini, allontanava, per oscurarla, la cultura dei ceti popolari, delle classi subalterne. Così scrive, al riguardo, Antonio Piromalli:

Fare la storia della cultura popolare calabrese implica anche demistificare i falsi valori ad essa riconosciuti dalla cultura ufficiale (ingenuità, pittoresco, primitività, ferinità, etc.) che costituiscono il depotenziamento del naturalismo e della concretezza storica e umana; rinvenire le censure di vario genere su di essa operate nei suoi motivi più autentici (sesso, brigantaggio, ironia, protesta politica, problemi sociali, etc.) per ridurne il profondo spessore storico e antropologico. L'innocua esaltazione veniva compiuta quando la cultura popolare del brigantaggio, nella quale gli oppressi si riconoscevano, veniva criminalizzata e quando al popolo depositario di valori che venivano proclamati semplici ed eterni si preparavano il ghetto dialettale, la colonizzazione, l'emigrazione. L'idealizzazione del popolo nascondeva la responsabilità dei dominanti; d'altra parte la sua cultura veniva, crocianamente e con criterio unicamente letterario, espunta perché troppo realistica e non trasfigurata in arte[15].


E' anche vero che gli studi sociologici ed antropologici aventi per oggetto la penisola bruzia hanno contribuito alla creazione parallela di una cultura indigena di notevole qualità. Questo è ciò che pensa Giuseppe Galasso il quale nella introduzione al libro Genti di Calabria sottolinea che:

Se possiamo parlare di una specifica cultura calabrese nel contesto della contemporanea cultura italiana e meridionale; se ne possiamo parlare con effettiva attendibilità al di là dei campanilismi regionali o provinciali e dei loro fuorvianti e fin troppo frequenti trionfalismi e delle loro altrettanto fuorvianti e frequenti recriminazioni, lo si deve proprio a questo dato di fatto: al fatto, cioè, che la riflessione calabrese sulla Calabria è stata una grande e non perduta occasione di crescita della realtà culturale e morale di una regione così complessa, di una regione dal profilo culturale e morale non meno rilevante e molteplice del suo così individuato profilo paesistico e geografico[16].




2. Civiltà contadina.
2.1. Aspetti del folklore.

La profonda complessità di una provincia come quella bruttia si palesa, anche, nell'atteggiamento assunto dalla sua popolazione di fronte allo scorrere del tempo, all'incedere della continua mutevolezza di accadimenti politici e naturali. Soffermandoci su un vasto arco di tempo, che va dal Seicento all'Ottocento, non si può non notare come l'evoluzione dei modelli di comportamento di più strati sociali sia estremamente lento, quasi impercettibile, in forte contrasto con gli eventi esterni che vanno maturandosi, come l'epidemia di peste del 1656 o la fine giuridica della feudalità, a partire dal 1806. In questi eventi e nell'incontro diacronico con la realtà interna va trovata la spiegazione della continuità storica – che non significa immobilismo – e della relativa emarginazione e subalternità di quella che, un tempo, veniva chiamata Calabria Citra.
Le dinamiche del cambiamento si sovrappongono ad una tenace riproduzione dell'esistente; la vita quotidiana - fatta di consuetudini, ripetitività, memorie rivissute nel passaggio delle generazioni - tende a ricostituirsi dentro ad ogni irruzione esterna. [...] Il tempo ripetitivo s'intreccia al tempo del cambiamento e lo assorbe, come la sabbia della riva assorbe lo scroscio dell'onda nel fruscio della risacca in cui restano a memoria conchiglie morte ed alghe disseccate. [...] in questa capacità di durare c'è una rabbia - si esprima nel brigantaggio diventato endemico o nelle ripetute rivolte, da quella antifrancese a quella antipiemontese - che si integra, come nuovo sedimento sovrapposto a strati secolari, alla “naturalità” del vissuto senza interrompere la continuità, anzi arricchendola con il senso di una perdita sempre presente, in bilico tra la violenza del mito e la rassegnazione della sopravvivenza[17].


Nella seconda metà del Novecento, la trasformazione economica e sociale si fa, tout à coup, più celere, erodendo l'identificante permanenza dell'angustia e della frantumazione degli spazi.
La disgregazione e il radicale cambiamento della borghesia terriera e del mondo contadino, nonché l'ammodernamento strutturale, hanno concorso alla violenta marginalizzazione della vecchia Calabria rurale.
Nel giro di pochi decenni, si è venuta edificando una nuova realtà, raramente segno della valorizzazione di originarie inclinazioni; in vaste zone l'isolamento dei centri ha lasciato il posto alla contiguità improvvisa e sconsiderata tra gli stessi. Fenomeni di “interdipendenza multipolare”[18], progressivi processi di addensamento, la nascita di nuove aree di tipo urbano, l'improvvida occupazione territoriale dell'abusivismo edilizio, sono tutti elementi rilevatori di una distorta modernizzazione, di una complessa situazione nella quale gli squilibri tra campagna e città, tra zone costiere ed entroterra, si ripresentano con un nuovo aspetto, propongono un nuovo tipo di disgregazione socio-economica e avvertono del pericolo di un'omogeneizzazione di massa e della conseguente perdita delle proprie radici.
Quella cultura contadina e artigiana, riscontrabile oggi solo in parte del tessuto connettivo dei paesi dell'interno, è stata dissolta, negli anni '50, dalle scelte neocapitalistiche e dall'emigrazione.
Di fronte ad un'immagine di sviluppo, che si tentava di dare all'intera penisola italica, la cultura popolare non poteva che essere percepita con fastidio, come segno di una arretratezza dalla quale era necessario liberarsi o, comunque, di una realtà residuale e irrilevante.
In questi ultimi tempi, persi i poteri di suggestione miracolistici dell'industrializzazione e cresciuta l'insofferenza per il sistema costitutivo che avvolge la vita cittadina, l'umanità del piccolo paese si riscopre vincente sull'alienazione delle caotiche città, dove gli individui non diventano cittadinanza, ma moltitudine.
Il folklore viene, da più parti, rispolverato, spesso manipolato, a volte inglobato in una visione acritica, se non idilliaca. L'interesse mostrato da molti intellettuali verso le tradizioni popolari ha prodotto una diversità di interpretazioni e di proposte del suo possibile uso. La cultura giovanile di protesta, alla fine degli anni Sessanta e negli anni Settanta, riscoprendo capacità e modi di espressione del mondo folklorico, profondamente rinnovato nel suo approccio dalle osservazioni gramsciane, ha attribuito allo stesso, se pur in maniera superficiale e contraddittoria, una connotazione contestativa e alternativa[19].
Dagli studi demologici, incentrati sulla salute della cultura popolare, si levano voci contrastanti: se da una parte si sottolinea la necessità della raccolta dei documenti in vista della scomparsa del folklore, dall'altra si proclama la sua immortalità. In realtà, se è vero che i fatti culturali hanno una vita longeva, non può non prendersi atto della loro attuale e progressiva attenuazione nella coscienza collettiva; di qui l'esigenza di un'approfondita analisi della cultura folklorica, esplicitandone contenuti, funzioni e prospettive, nonché integrando la metodologia dei suoi studi con quella di altre discipline.
Luigi M. Lombardi Satriani ha individuato nel rapporto tra antropologia culturale e scienza del folklore il rapporto esistente tra scienza generale e scienza particolare; attraverso i concetti di quest'ultima è possibile porre opportune delimitazioni nella ricerca antropologica, alla quale, quindi, si attribuisce una specificità che non avrebbe se ci si limitasse ad applicare schemi generici ad ogni tipo di situazione. D'altra parte, per l'individuazione del senso e della funzione dei fatti demologici, lo studioso delle tradizioni popolari può rifarsi a metodi d'indagine tipici dell'antropologia culturale; ed è attraverso i concetti elaborati da questa scienza generale che è possibile formulare una definizione di folklore.
All'interno di un “gruppo culturale”, definito da Manfredo Roncioni, come

un insieme di individui che hanno in comune (anche non geograficamente o socialmente riuniti) la caratteristica di essere inculturati o acculturati in una stessa cultura,[20]


è possibile individuare sottogruppi, in base a criteri di varia natura, ai quali corrispondono sottoculture determinate.

Il folklore si presenta come una subcultura prodotta dalle classi subalterne della società divisa in classi. [...] Il folklore, analizzato in una prospettiva antropologico-culturale, costituisce la documentazione diretta dei temi e dei valori operanti nelle classi subalterne; documentazione insostituibile perché basata su quanto queste classi stesse dicono, sulla loro voce. Ciò non esclude che nel folklore siano presenti anche valori ideologici, principi generali contradditori con i valori effettivamente operanti del costume[21].


L'approccio conservatore, di gran parte degli studi demologici, che ha influito sulla svalutazione (operata dalla cultura contemporanea) delle tradizioni popolari, rivela una precisa posizione, che, se pur variabile nei diversi autori e nei distinti momenti storici, rappresenta una porzione di una più generale ideologia, caratterizzante la cultura delle classi privilegiate.
Molto spesso si è analizzato il mondo folklorico secondo criteri dedotti dalla cultura alla quale si appartiene, esprimendo, a volte, in una visione falsata, il rimpianto di un mondo idilliaco, a volte, individuando nello stesso segni di inciviltà o di immagini pittoresche:

il disprezzo per la cultura folklorica o l'assunzione deformata di essa sono, da un lato, effetto del dominio di classe che comporta di per sé esclusione del dominato e, dall'altro, causa essi stessi di ulteriore esclusione[22].


È quanto sostiene Luigi M. Lombardi Satriani, il quale – studiando la funzione che la sottocultura popolare svolge nei confronti di quella dominante e, allo stesso tempo, illustrando le modalità di quest'ultima nel tentare di condizionare e strumentalizzare la prima – ha sviluppato un ampio discorso sul processo di acculturazione, sulla resistenza (spesso implicita) ad esso da parte delle classi subalterne, sui diversi livelli di contestazione e sulla funzione narcotizzante della cultura folklorica.
È da tener presente l'estrema complessità del sistema sociale, in quanto insieme di forze, tensioni e meccanismi attuati spesso senza una finalità consapevole; un sistema che non presenta nette linee di demarcazione fra il mondo dei dominati e quello dei dominatori, vivendo essi, quotidianamente, in stretta connessione e in un'osmosi che registra quasi sempre il passaggio dei temi della cultura egemone nell'ambito di quella subalterna. A sostegno di quanto detto, sembra utile riportare la testimonianza di Antonio Piromalli:

Nella cultura popolare la consapevolezza della precarietà, della insicurezza della loro condizione costringeva i contadini a intersezioni con la classe egemone e, talvolta, all'accettazione della filosofia della immodificabilità dello stato presente, al fatalismo, al perdono generale, al misoginismo fondato sull'inferiorità della donna, al misoneismo. Ciò avveniva quando non esisteva fiducia nei valori collettivi di classe. Ma esistono espressioni che costituiscono elementi di sostituzione quando i valori di classe non possono essere manifestati. Nel sentimento religioso popolare confluiscono le condizioni di disagio economico e sociale; in quel sentimento può agitarsi una potenzialità rinnovatrice. Il senso magico dei riti religiosi era un'associazione psicologica collettiva contro la paura, una difesa esistenziale: in una società divisa in classi, dominata da baroni e notabili, i Santi appaiono i patroni liberatori dai pericoli di guerra, fame, terremoti, epidemie, ingiustizie. L'elemento autentico della religiosità popolare era l'ansia di liberazione, di contestazione della vita oppressa[23].


Non è un caso che nella cultura popolare il sogno costituisca il luogo simbolico nel quale i Santi e i morti appaiono per consolare, svelare e orientare i viventi.
In questo quadro, difficilmente riconducibile a perfetti schemi, è possibile cogliere l'oggettiva ambiguità del sapere tradizionale. Esso si presenta, in maniera implicita ed esplicita, e a diversi livelli, in opposizione alla cultura egemone; in realtà può ben poco contro il tentativo di quest'ultima di rendere sterile la funzione contestativa e di potenziare quella conservatrice; per cui una cultura che nasce fondamentalmente per avversare il potere, finisce per diventare strumento funzionale alla cultura dominante. Luigi M. Lombardi Satriani, sottolineando come la cultura folklorica venga spesso utilizzata dalla stessa classe subalterna in chiave conservatrice, dimostra come qualunque prodotto folklorico possa svolgere una funzione narcotizzante:

Ad esempio, il perdurare dell'ideologia magica nel mondo subalterno è, [...] contestativo, «per posizione» - ossia rientra nell'area della contestazione implicita che comprende quei fenomeni folklorici che si contrappongono solo per la loro presenza a quelli della cultura egemone -, dell'universalità della concreta fruibilità della scienza medica, ma riferendo il discorso ai singoli appartenenti alla classe subalterna si potrà notare come il perdurare di tale ideologia magica agisca come mezzo per ritardare e ostacolare la fruizione di servizi sanitari (forniti, d'altronde, in maniera nettamente differenziata a seconda dell'appartenenza di classe)[24].


La demoiatria, ancora oggi praticata se pur in maniera molto ridotta, si fonda sia su riti magici che sulla reale valenza terapeutica di alcuni prodotti naturali. Cesare Lombroso, nell'opuscolo In Calabria, pubblicato nel 1898, parlando delle tradizioni mediche dei calabresi, scriveva:

In mezzo a molti e ridicoli pregiudizi si cela nella terapeutica tradizionale dei popoli, forse tanto e più senno che proverbi, e non sarebbe punto dannoso che il medico si degnasse abbassarsi a studiare quei frutti, per quanto adulterati e guasti, di secolari osservazioni. [...] I Calabresi conoscono la proprietà narcotica del giusquiamo, che lo chiamano tabacuni; contro il male dei denti adoperano il solanum nigrum (struga), come anche noi, e l'oleandro contro la scabbia; la salvia in suffumigio nelle infezioni di petto; l'alga marina nell'idrocele; l'elleboro verde (rizzot), questa prediletta pianta degli antichi, adoperano come esutorio[25].


A ben guardare, il ricorso alla medicina popolare, alle pratiche magiche, non era certo il risultato di una scelta, ma scaturiva dall'impossibilità di fruire della scienza medica, per motivi soprattutto economici; d'altra parte


la sfiducia, l'incredulità, il non credere all'efficacia della scienza medica derivavano da una sfiducia e incredulità nei confronti del medico, in quanto ricco, padrone e galantuomo[26].


Una sfiducia che, dunque,

va compresa nel contesto storico di scontro fra diverse culture; inoltre i sospetti di essere usati come cavie non erano per nulla pregiudizi contro il progresso, ma maledette verità storiche[27].





2.2. Alimentazione, unità significante, nella realtà popolare.

Accettato il concetto per cui nessuna cultura risulta perfettamente autonoma e priva di condizionamenti, è possibile individuare nel folklore un insieme complesso che risente della subalternità subita, non certo per decisione consapevole, tanto a livello socio-economico quanto a livello culturale.
E' illuminante, a proposito, notare come lo stesso fenomeno della “turisticizzazione” e dell'esaltazione della gastronomia contadina tradizionale abbia trovato un impulso vitale, oltre che nella mistificazione della “cultura osservante” e nella strumentalizzazione del mercato, nella cultura folklorica, che, a parere di Vito Teti,

nel tentativo di offrire una certa immagine di sé agli «altri», per esserne accettata, si pone inevitabilmente nel senso della sua distruzione e della sua negazione[28].


Le ricerche, effettuate da autorevoli studiosi e riguardanti un arco temporale che comprende la seconda metà del XVIII secolo fino agli anni Cinquanta, dimostrano come quella del popolo bruzio fosse un'alimentazione «di fame, di classe, uniforme, monotona e statica»[29]. Questa definizione va, certamente, integrata con alcune osservazioni. È da notare, infatti, come la cucina delle classi subalterne fosse in determinate circostanze ricercata ed elaborata; come il più delle volte essa utilizzasse gli stessi prodotti presenti nell'alimentazione dei ricchi, per cui le differenze risultavano più quantitative che qualitative; come essa (che, comunque, ha subito nel corso dei secoli mutamenti seppur quasi impercettibili) variasse da paese a paese. La dieta del popolo abitante la provincia cosentina, strettamente connessa ai prodotti locali e alle raccolte stagionali, si diversificava in relazione alle caratteristiche del territorio, nonché in base all'appartenenza alle distinte categorie confluenti nella classe subalterna, e tenendo conto della presenza di culture particolari (minoranze etnolinguistiche) quali quella greca, occitanica e albanese.
L'alimentazione, che non si riduce esclusivamente ad un problema di ordine nutrizionale, rappresenta, di certo, un fatto culturale, riveste valenze allegoriche e simboliche, si lega a precise e antiche costumanze.
Le comunità calabro-albanesi, in occasione del matrimonio, avevano la consuetudine di preparare la petta, una focaccia sulla quale si evidenziavano delle forme raffiguranti guerrieri, uccelli o altri animali. La petta veniva regalata alla sposa, mentre allo sposo si donava u cullacciu. Questo pane rituale era poi diviso in due parti dagli sposi, che lo tendevano da un'estremità all'altra fino a spezzarlo. Questa tradizione cerimoniale richiama alla memoria quella della confarreatio, forma con cui gli antichi Romani celebravano le nozze, che si svolgeva attraverso un certo genere di sacrificio in favore di Giove Farreo e mediante la consumazione in comune di libagioni sacre e l'offerta di una focaccia (panis farreus) fatta agli sposi dal Pontefice Massimo alla presenza del Flamen Dialis e di dieci testimoni.
Molti documenti dell'800, che forniscono testimonianze relative all'alimentazione del contadino, mettono in rilievo l'importanza che il pane rivestiva nel suo regime quotidiano. La “Statistica Murattiana” del 1811-'12 ci offre una visione del suo consumo:

Il pane generalmente presso la classe meschina è di fromentone. Le popolazioni però collocate in seno alla sterilità delle montagne usano mischiarvi le castagne. Non di rado formano il pane semplicemente di questo frutto e della nuda avena. Il pane della gente mezzana è costituito da fromentone e segale; quella de' buoni possidenti del solo frumento[30].


In alcune situazioni di particolare povertà la frutta di fatto poteva sostituire il pane e la minestra quotidiana. Vincenzo Padula, raccontando della miseria dei braccianti, scriveva:

Nei campi nelle giornate faticosissime per rinvigorire le forze tolgono dalla tasca un pezzetto dell'orribile pane e lo mangiano a volte accompagnandolo con un peperone, o un capo d'aglio[31].


Sempre descrivendo la situazione della categoria più disagiata, lo scrittore di Acri ci fornisce un'ulteriore testimonianza:

Sul tirreno manca il pane; si cibano di granone. Il pane bianco dicesi in Belvedere pane de buonu, e si cerca pei malati. Non comprano sale. Adoperano acqua marina. [...] Lì tutto si secca e nulla si sala: peperoni, zucche, petronciani, bucce di poponi; e 'l lardo della povera gente è una provisione di peparuoli. Il bracciante ne butta un pugnello nel piatto con olio e sale, e vi si mangia due pani. I proprietarii li seccano a cantaia, e li danno per fatica, per tessere e filare. Il popolo non vede mai denaro: è pagato con fichi di scarto, peparoli e fagioli[32].


Dal momento che il pane costituiva parte fondamentale per la sussistenza delle classi subalterne, chi lo faceva doveva compiere un insieme di azioni preventive atte ad ottenere un preciso risultato: evitare, cioè, che alcune persone potessero gettare il malocchio compromettendo così la normale lievitazione del pane stesso. Molte erano, anche, le regole da osservare a tavola; la pagnotta non doveva essere rivoltata, visto che la credenza popolare riteneva che essa avesse due volti: quello sovrastante, rivolto in alto, dedicato a Dio (perciò le massaie erano solite tratteggiare sulla superficie il segno della croce); quello sottostante di solito nero e bruciato, si credeva fosse proprio del diavolo. Non si poteva né capovolgere il pane, né introdurvi nel suo interno il coltello; l'effetto che ne sarebbe conseguito era il seguente: nel primo caso ci si sarebbe rivolti al diavolo, nel secondo si sarebbe ferito Dio. Peccato era quando un pezzo di pane cadeva per terra e non poteva essere mangiato prima di essere stato diligentemente baciato e segnato.
Norme, queste, legate alla consapevolezza della forte povertà connotante la quotidianità del vitto contadino, interrotta solo in occasioni cerimoniali e festive.
Il Carnevale, ad esempio, veniva considerato il simbolo del cibo, personificazione dell'ingordigia e dell'eccesso, festa nella quale tutto era concesso, finanche il capovolgimento dei rapporti gerarchici. Tale festività appagava l'aspirazione del popolo a poter disporre di cibi “straordinari”, lontani cioè dall'erbivoro al quale si era costretti quotidianamente a ricorrere. Essa riconduceva all'antico mito popolare del Paese di Cuccagna, dove si assaporano «i piaceri della pancia» e «le delizie dell'amore»; un mondo caratterizzato dalla

prospettiva delle terre non recintate, della proprietà comunitaria, il bando ai baroni e ai duchi e il rispetto della logica parassitaria e soffocatrice delle classi ricche; il sogno dell'innocenza del corpo, nudo e felice; il desiderio della salute fisica e l'agognata vittoria sulla malattia, sulle fame e sul freddo; la liberazione dalla brutalità del lavoro coatto e disumano[33].


Il fantoccio di Carnevale diveniva poi oggetto di una serie di manifestazioni: processo, condanna, testamento, morte e funerale; sembra esistere in ciò un medesimo denominatore comune propiziatorio, di rinnovamento di energie naturali, di esorcismo dei morti, di promozione di fecondità.
Nella tematica del Carnevale è evidente, altresì, una protesta verso l'ordine e i poteri costituiti, di cui si attuava una sorta di sospensione autorizzata, ma limitata nel tempo e nello spazio e proprio per la loro ritualità istituzionalizzata diventava innocua o addirittura positiva per la conservazione degli istituti del potere. Re Carnevale, nella sua ambiguità, rappresentava il sovrano del paese della cuccagna e nel contempo il capo espiatorio per i mali dell'anno passato.
Finita la festa si ritornava alla normalità di una vita misera, alla subalternità, alla consapevolezza del propria posizione sociale; quella coscienza dei ruoli che Vincenzo Padula esprime utilizzando le parole di un terziere:

Il mondo è un albero: i rami di legno, duri ed infrangibili, e che altro non mettono che foglie, sono i ricchi; noi lavoratori siamo i rami da frutti - rugosi e deboli. Gli oziosi sono i rami succhiosi. Noi poveri siamo come il cotogno, su cui si può innestare ogni arboscello. - Noi poveri siamo sulla terra senza radici; ma un bastoncello di sambuco si pianta senza radici, e nondimeno fa buona prova. Ha l'aria, ha il sole; e gli bastano[34].


Durante il periodo carnevalesco vengono sbandierati, con maggiore energia, valori e temi della cultura popolare, con valenza estremamente contestativa, ma per l'ennesima volta, sotto il controllo della classe dominante, essi si risolvono all'interno di modelli predisposti, fino a svolgere una funzione narcotizzante, conservatrice dello status quo;

Carnevale era anche conferma di diversità, e di fatto ribadiva l'ordine del mondo di cui era espressione. E non poteva essere diversamente. I riti non erodono mai - se non momentaneamente - la società di cui sono “rappresentazione”[35].





3. Realtà produttive della provincia di Cosenza.

3.1 Forte caratterizzazione qualitativa dei prodotti agro-alimentari.

Il mondo rurale cosentino – che presenta tratti culturali latenti o manifesti, comunque, originali – rappresenta un patrimonio materiale e immateriale. Se la nozione del primo è strettamente connessa al patrimonio architettonico, il secondo rinvia alle tradizioni, ai dialetti, alle conoscenze, al know-how. La natura in quanto paesaggio “coltivato” diventa parte integrante della cultura contadina. I prodotti agro-alimentari, nella specificità di un'identificazione territoriale, risultano essere della realtà rurale elementi significanti, validi strumenti di presentazione e promozione.
La conservazione e la valorizzazione delle varietà locali e delle produzioni tipiche sono imperativi inderogabili per le istituzioni preposte; gli approfondimenti della cultura del biologico e dell'ambiente, della salute e del gusto momenti inscindibili e necessari per una proposta agro-alimentare “sostenibile” che non tenga conto solo agli aspetti tecnico-produttivi.
Quello della provincia di Cosenza è un “giacimento gastronomico”, che eccelle per qualità nutrizionale e per metodi di coltivazione, di allevamento e di produzione, e che merita una maggiore e qualificata divulgazione e distribuzione. In questa direzione si sono mossi gli organizzatori della “Fiera dei 100 comuni”, tenuta nella città di Altomonte (vincitrice della I edizione del premio “Bandiere Arancioni - Marchio di qualità Turistico-Ambientale” per l'anno 2000).

La Fiera vuole essere un'occasione unica per far conoscere le realtà culturali e artigianali, il costume e la gastronomia, la tradizione e la storia dei nostri piccoli e grandi comuni […] positiva risposta all'iniziativa che, al suo esordio ha già raccolto tanta approvazione. Basti pensare che la Città di Toronto, in Canada, si è offerta di ospitare per il 2002 la Fiera dei 100 comuni della Provincia di Cosenza in trasferta all' estero fra gli italiani emigrati[36].


Una vetrina importante per una cucina dai sapori intensi che affonda le sue radici nell'antichità e dove non poteva mancare quello che, da sempre, viene considerato il “nettare del Mediterraneo”. Ateneo, erudito greco, vissuto fra il II e il III secolo dopo Cristo, riporta la notizia secondo cui i Sibariti avevano impiantato un sistema di condutture in terracotta, al fine di portare il vino dai vigneti delle colline fino alle cantine poste in riva allo Ionio[37]. Al di là della veridicità del racconto, ciò denota il peso della viticoltura e del commercio vinicolo e le complesse strutture di produzione e di distribuzione di queste terre. I Greci denominarono Enotria, ossia terre dei pali da vite, l'Italia meridionale. Gli enotri, antichissima popolazione italica, vissero, in età preromana, nella regione che fu poi chiamata Lucania e Bruzio. L'etimologia del nome deriva da oinos, vino, in quanto varie zone erano ricche di vigneti. Una tradizione millenaria, quella enologica, geneticamente impressa nella cultura folklorica; per il contadino calabrese,

il vino non solo ha un valore dietetico, non solo ha la capacità di allungare gli anni di vita, ha il merito di rendere allegro e loquace chi lo beve, è indispensabile per valorizzare i pasti, ma ha anche un valore terapeutico, specialmente nelle malattie di raffreddamento […] È sempre il vino a dare forza e vigore ai contadini, agli zappatori, ai mietitori per poter affrontare il duro ed estenuante lavoro dei campi.[38]


Dal 1975 l'attribuzione “denominazione di origine controllata” ad alcune produzioni vinicole della provincia brettia ha avviato un processo di riconoscimento istituzionale di uno dei reparti più competitivi dell'economia cosentina. Il Donnici (DOC - D.M. 28/04/75) interessa l'area viticola disposta lungo la valle del Crati e quella del fiume Savuto, che dai pendii occidentali dell'Altopiano silano scende sino alla fascia costiera tirrenica. Dal colore rosso cerasuolo, brillante, trasparente, dal sapore asciutto, armonico, pastoso e dal profumo intenso, questo vino si sposa perfettamente con le carni rosse, la selvaggina e i salumi tipici.

Si ricava da uve Gaglioppo (localmente denominate Mantonico o Monsonico nero) nella misura del 45-60%; Mantonico bianco, nella misura del 20-35%; Greco nero e Malvasia bianca, nella misura del 5-20%. Il nome Mantonico deriva dal greco “Manteuticos” = profetico, il che sta a significare che il vino prodotto con uve di questo tipo dispenserebbe poteri divinatori[39].


Il Savuto (DOC - D.M. 19/05/75), prodotto “continentale”, si caratterizza per un sapore caldo, vellutato e per un profumo ampio che ricorda i fiori di campo e la frutta secca. Prende il nome dall'omonimo fiume,

ma in territorio di Rogliano è stato da sempre usato quello più suggestivo di “Succo di pietra”[40].


Nella zona, dove dominano i vitigni ad uve rosse, compresa in parte del territorio di Castrovillari, San Basile, Saracena, Cassano Jonio, Civita e Frascineto, si effettua la raccolta del Pollino (DOC - D.M. 04/06/75). Con una gradazione minima di 12,5° e un invecchiamento di due anni, questo vino può portare in etichetta la qualificazione “superiore”.
Da metà degli anni '90 la lista dei vini DOC della provincia di Cosenza si è arricchita del San Vito di Luzzi e del Verbicaro[41]; altri prodotti vinicoli hanno ottenuto il riconoscimento “Indicazione Geografica Tipica”: Calabria, Condoleo, Esaro e Valle del Crati.
La certificazione DOP (Reg. CE n. 134/98), nel comparto zootecnico, dei quattro salumi storici calabresi (salsiccia, capicollo, pancetta, soppressata) è un'ulteriore garanzia della genuinità di antichi sapori. Documenti dell'Ottocento dimostrano l'esistenza di una stretta connessione tra l'uccisione del maiale ed il Carnevale, festa caratterizzata dal godimento sregolato dei beni materiali. I poveri, infatti, vi riversavano il sogno delle straordinarie mangiate alimentate dall'incombente pensiero delle privazioni e dalla minaccia della fame. Si viveva così l'illusione dell'abbondanza, il piacere dell'abbuffata.

Proprio perché cibo desiderato e non posseduto, la carne compare sulla mensa del contadino calabrese solo nelle grandi feste (Carnevale, Pasqua, Natale ecc.) in occasioni del tutto particolari […] Quando il maiale aveva ormai raggiunto un buon peso, il che avveniva quasi sempre nei mesi di gennaio, febbraio, i contadini fissavano la data dell'«uccisione» […][42]


Il rito della macellazione del maiale si consumava rispettando precise fasi, in un'atmosfera di marcata sacralità. Il carattere ambivalente proprio del sistema iconografico della festa popolare, le arcaiche tradizioni legate ai momenti dell'annata agraria sono pressoché scomparse; quello che rimane è la tipicità dei prodotti.
Il capocollo viene preparato con le carni della parte superiore del lombo dei suini, disossato e salato. Lo strato di grasso di circa 4 mm serve, oltre al miglioramento gustativo, a mantenere il salume morbido; dopo la salatura e la lavatura, si bagna con vino rosso. In seguito alla pressatura e all'aggiunta di pepe nero e rosso piccante, la carne viene avvolta nelle membrane del suino, legata con spago naturale e lasciata a stagionare. La pancetta, che si ricava dal sottocostato inferiore, si caratterizza per l'alternanza di strati sottili di carne magra e di grasso e per la parte esterna rossastra dovuta alla presenza di polvere di peperoncino dolce. Anche per la preparazione della salsiccia devono essere impiegati suini nati e/o allevati in Calabria; in questo caso si utilizzano carni della spalla e del sottocostola, con lardo ed aromi naturali. La soppressata, invece, si ottiene con 2/3 di carne, tritata a medio taglio, ricavata dal prosciutto e dalla spalla e 1/3 di grassi, e con l'aggiunta di sale, pepe nero in grani e rosso piccante. Si lascia per alcuni giorni sotto un tagliere, sopra il quale vengono poste grosse pietre; importante è, per la riuscita del prodotto, la fase finale, ossia la stagionatura.
Se la carne costituiva, nel mondo contadino del calabrese, il più grande desiderio alimentare, le verdure e la frutta rappresentavano la fonte principale della dieta.

Il contadino mangiava la frutta che trovava nei campi nei vari periodi dell'anno […] I frutti «da tavola» più diffusi nella zona erano: fichi, uva «fragola», pesche, prugne, ciliegie, amarene, noci, nocciole, castagne […][43]


Derrata maggiore sostenitrice dei bisogni del popolo silano e “oggetto con funzione magica” nei racconti popolari, la castagna è – oggi – un frutto ricercato che si presta ad un impiego variegato. Si mangiano allo stato fresco o secco, crude, bollite (vaddrani), arrostite (ruseddre), e si riducono in farina (usata per fare il pane castagnizzu e le frittelle). I pistiddrii sono le castagne essiccate e scortecciate; possono essere consumate anche bollite insieme al liquido di cottura. Aziende del cosentino fanno di questo frutto di alto potere nutritivo l'oggetto di una produzione artigianale che viene esportata in tutto il mondo. Stesso discorso vale per la lavorazione dei fichi. Questi, per la realizzazione dei paddruni 'e ficu (specialità tipica sanfilese), si fanno appassire e si cuociono al forno a legna; raffreddati, vengono manipolati fino a raggiungere la forma sferica; avvolte in foglie di fico appassite vengono nuovamente ripassate al forno. Le “crocette” sono fichi secchi (appiattiti, tagliati a metà e sovrapposti a coppie incrociate) cotti al forno e farcite di noci e scorze d'arancia. Per venire incontro ai gusti di una più ampia clientela, ci si è specializzati nella produzione di pralineria nella quale vengono utilizzati diversi ingredienti, primi fra tutti il cioccolato e l'enorme varietà degli agrumi nostrani.
Gli agrumi (originari dell'India e dell'Estremo Oriente) hanno trovato nel territorio della Provincia di Cosenza condizioni climatiche ed ambientali ottimali per esternare le loro migliori caratteristiche. Il cedro (citrus medica, L), il primo agrume conosciuto nel mondo occidentale, è coltivato in Italia quasi esclusivamente a Scalea, Diamante, S. Maria del Cedro. In quest'ultima località giungono i rabbini da tutta Europa per scegliere gli esemplari più belli del frutto (che considerano simbolo della perfezione) per utilizzarli nella festa dei tabernacoli. Il malum citreum, ossia il cedro (Teofrasto lo chiamò “pomo di Media e di Persi” proprio per la sua diffusione nell'area medio-orientale) ha forma ovale di colore giallognolo. La polpa scarsa è poco acida; la buccia viene utilizzata, soprattutto, per la produzione di canditi e di liquori.
Nella descrizione dei “giardini di agrumi” effettuata dal Padula si evince non solo una estrema varietà di specie, ma anche l'importanza che questi "frutti del sud" avevano nell'economia del territorio bruzio:

In Corigliano per la benignità del clima i portogalli si smaltiscono in Aprile. - I limoncelli agri e dolci si portano nei paesi vicini e si cangiano con uova e pane […][44]


Le Clementine di Calabria (“Indicazione Geografica Protetta” - Reg. CE n. 2325/97) sono un ibrido, ottenuto dall'incrocio fra il mandarino e l'arancio amaro, il cui dono (in numerosi racconti della cultura popolare) simboleggiava dichiarazione d'amore eterno. Alla fine del XIX secolo tal frate Clemente riuscì a fondere le caratteristiche genetiche delle due piante, riuscendo ad ottenere un frutto che ha trovato – oggi – nell'area della “Collina litoranea di Rossano” condizioni climatiche ed ambientali ottimali. Il frutto, caratterizzato dalla quasi totale assenza di semi, presenta un epicarpo liscio di colore arancio scuro, avente numerose ghiandole oleifere. Le Clementine di Calabria, nelle varietà Comune, Fedele, Hernandina, Marisol, Nules, Spinosa, SRA 63 e Tardiva, hanno forma sferoidale lievemente schiacciata ai poli e calibro del diametro minimo di 16-18 mm. La polpa è molto succosa, deliquescente ed aromatica, di colore arancione. La crescita quantitativa della produzione agrumicola calabrese appare legata ad una espansione della produzione di pompelmi (citrus paradisi), arance e, soprattutto, del comparto dei mandarini (comprendente al suo interno le clementine). Maggiore protezione della collocazione sui mercati, miglioramento quantitativo delle produzioni, creazione di cultivars a maturazione precoce e tardiva, riduzione dei costi di produzione, sono tutti fattori determinanti nelle strategie volte a valorizzare dei prodotti che per qualità non hanno pari nel mondo.
L'altro elemento distintivo dell'alimentazione calabrese, il peperoncino, trova ampio posto nella produzione letteraria folklorica e nei racconti popolari; si riteneva che il pepe conferisse vigoria fisica. Numerose le testimonianze sulle sue doti terapeutiche:

[…] fa digerire, tira, risolve e leva le caligini dagli occhi. Bevuto, ovvero, impiastrato sovviene al tremore delle febbri che interpongono queste, giova ai morsi di serpenti, fa partorire. […] Giova alla tosse, e a tutti gli altri difetti del petto […][45]


Il peperoncino, decongestionante e antinfiammatorio, è stomachico, ossia favorisce la secrezione dei succhi gastrici e quindi la digestione. Alle proprietà vasodilatatrici, anticolesterolo e al contributo antiossidante nella lotta al cancro dello stomaco, si somma l'azione della vitamina PP che rende elastici i capillari, della vitamina K2 che è antiemorragica, della vitamina E che aumenta l'ossigenazione nel sangue. Il peperoncino piccante appartiene alla famiglia delle Solanacee. Di fronte alle diverse varietà del capsicum annuum, in Calabria si preferisce dimenticare le classificazioni scientifiche per chiamare i peperoncini con i loro nomi locali: cancarillo, pipazzu, pipi vruscente, diavulillo. Più semplice l'individuazione tipologica del sapore, legata alla quantità di capsaicina: peperoncini dolci, piccanti e piccantissimi. L'Accademia del Peperoncino di Diamante rappresenta la sede ufficiale della esaltazione del condimento piccante che insaporisce e rende più gustosa una “cucina miracolistica per i trionfi che celebra in assoluta povertà”[46].
Principale condimento di questa dieta è l'olio d'oliva, tra i naturali ambasciatori della genuinità dei prodotti agro-alimentari della Calabria, che, dopo la Puglia, si colloca al secondo posto nella graduatoria della produzione italiana. L'estrazione si compie, tuttora, secondo metodi tradizionali in uso da millenni, salvo naturalmente la meccanizzazione dei procedimenti e il perfezionamento delle apparecchiature, essendo esclusa qualsiasi manipolazione chimica. A Rossano, dove è possibile trovare i vecchi frantoi e le vecchie molazze di pietra, viene raffinato un olio ottimo, caratterizzato da un grado di bassissima acidità. Alle qualità gustative si sommano i pregi basilari di una sana alimentazione: ricco di vitamina A , l'olio previene tra l'altro l'arteriosclerosi e l'infarto. La “denominazione di origine” viene riconosciuta agli oli extravergini prodotti in determinate zone geografiche e aventi caratteristiche merceologiche correlate alle condizioni proprie dell'ambiente di produzione e alle varietà di olive utilizzate; il Bruzio (DOP - Reg. CE n. 1065/97) ne costituisce un valido esempio. Frutto di una lavorazione che sfrutta esclusivamente mezzi fisici (frangitura, spremitura, separazione), si ricollega territorialmente a quattro sottozone. Nella Valle del Crati, la carolea rappresenta la varietà preponderante e contribuisce ad ottenere un olio mediamente fruttato, con un colore dal verde al giallo. Il Bruzio, con la menzione geografica “Colline Joniche Presilane”, nella cui produzione si utilizza la varietà dolce di Rossano, presenta un odore fruttato delicato, un retrogusto di mandorla, un colore giallo oro con riflessi verdi. Nella zona della Sibaritide si ottiene, con la varietà cassanese e roggianella (o tondina), un ottimo olio caratterizzato da un sapore fruttato con lieve sensazione di amaro. L'olio con l'indicazione “Fascia Prepollinica”, delicato nel gusto e con sentori floreali ed erbacei, esalta perfettamente le olive autoctone, utilizzate da sempre nelle mense contadine.

Le olive si preparavano nei seguenti modi. Olive verdi schiacciate: quando erano ancora verdi le olive, specie quelle grosse (carolei), venivano raccolte dalla pianta (pinnati), schiacciate e messe nell'acqua per due o tre giorni, dopodiché, tolta l'acqua, venivano consate (condite) con sale, aglio, olio, origano e pepe […][47]


Frutto di una delle più antiche tecnologie alimentari, che consente la conservazione di un prodotto facilmente deperibile come il latte, i formaggi calabresi – il butirro dal delicato gusto conferitogli dal cuore di burro, avvolto da un involucro di caciocavallo, la ricotta salata e affumicata (ottenuta per lo più con latte di pecora), la giuncata di Morano Calabro, la caciotta albanese… – esaltano caratteristiche organolettiche derivanti da ricchi pascoli. Il re dell'arte casearia della provincia è il caciocavallo silano (DOP - Reg. CE n. 1263/96), formaggio semiduro a pasta filata, dalla forma ovale o tronco-conica, prodotto con latte vaccino. Il suo gusto è delicato e tende al dolce, quando il prodotto è fresco; con la maturazione, grazie alle condizioni climatiche presenti nell'altopiano silano, acquista peculiarità ottimali fino a divenire piccante. Se l'etimologia del nome è dubbia (deriverebbe, probabilmente, dall'abitudine di appendere le forme del formaggio a cavallo di un bastone orizzontale), le origini del caciocavallo sconfinano nella leggenda; Cassiodoro ci racconta che alla corte del re degli Ostrogoti, Teodorico, il silaneum caseum era costantemente presente.
Ancora più oscura la storia di un altro vanto della produzione agro-alimentare della provincia di Cosenza, la glycyrrhiza. Conosciuta da oltre 35 secoli, la liquirizia divenne, a partire dal 1715 (anno in cui il Duca di Corigliano impiantò la prima fabbrica del genere in Calabria), fonte di progresso economico per la gente brettia. Dal XVIII secolo ebbe inizio la vivace azione produttiva tramite industrie di trasformazione della radice di liquirizia che cresceva spontaneamente nelle zone pianeggianti della Provincia di Cosenza:

Dieci fabbriche di liquirizia, che si estrae dalla radice della pianta detta da Linneo Glycirrhiza glabra spontanea produzione di que' terreni, ne mandano all'Inghilterra ed alla Francia circa ottomila cantara, che rendono ai loro proprietari più di dugentomila ducati[48].


Pianta (il cui nome significa “radice dolce”) appartenente alla famiglia delle leguminose, la liquirizia è un buon coadiuvante dei processi digestivi; possiede ottime proprietà rinfrescanti, antinfiammatorie, edulcoranti, espettoranti, emollienti. Le radici vengono estratte dal terreno nel tardo autunno del terzo anno di coltivazione; dopo la sbucciatura, si procede all'essiccazione finalizzata alla messa in commercio sotto forma di bastoncini. Gli steli si candiscono o si cuociono per fare composte e marmellate. Il liquido scuro dal gradevole gusto dolce-amaro e dalle benefiche virtù, necessario per ottenere la liquirizia nera, si ottiene facendo bollire le radici. Liquirizia pura e gommosa, chicchi, favette, rombetti, assalesi, sassolini, bastoncini classici e di legno, liquirizia confettata, torroncini, grappa e liquori: questi sono alcuni dei tanti prodotti che sfruttano quella che da fonti autorevoli viene considerata la migliore liquirizia del mondo. Derivazione della radice, processo di estrazione, lavaggio, essiccazione, ottenimento dei pani e dei prodotti finiti, sono alcune delle fasi che – in ossequio alla disciplina per la produzione biologica della liquirizia – si svolgono, applicando regole determinate. La filosofia del biologico non può che promuovere l'immagine e la reputazione complessiva del “sistema Calabria” e il nuovo ruolo multifunzionale dell'agricoltura. Nel paradigma di questo sviluppo sostenibile si colloca naturalmente – coniugando cultura del biologico, rispetto dell'ecosistema naturale e “ospitalità rurale”, sinergia tra iniziativa privata e impegno istituzionale – l'incontro tra il settore agro-alimentare quello dell'agriturismo e

[…] la riscoperta di tutte le attività artigianali pregiate tipiche del nostro territorio, nonché il potenziamento di tutto il terziario, dai servizi, ai trasporti, al sistema dell'accoglienza […] la riscoperta di antichi mestieri, ma anche l'acquisizione di capacità manageriali, nonché la necessità di una formazione professionale a tutto campo, che promuova le nuove professioni, le antiche riconvertite, le capacità manageriali che oggi si richiedono per la conduzione di un'azienda, e tutte le professioni legate ai servizi alla persona ed al turismo culturale, alla gestione di servizi culturali, ad un modo nuovo di gestire le strutture dell'accoglienza , non più finalizzate solo ad un turismo stagionale, ma ad un turismo culturale, che ha come caratteristica di essere una risorsa perenne, e di qualità pregiata, non invasivo, ma rispettoso dell'ambiente, e che inoltre richiede figure professionali e competenze specialistiche del tutto nuove[49].





3.2. Artigianato artistico, manifatture domestiche, industria rurale: antichi mestieri e nuove prospettive.

Vaste aree rurali della provincia di Cosenza – testimonianza del lavoro dell'uomo e dei suoi effetti sul paesaggio – sono interessate a progetti di sviluppo volti a coinvolgere più attori locali. Di fronte ad una serie di evidenze poco confortanti – calo demografico e alti tassi di invecchiamento della popolazione nelle zone di cui sopra, scarsa propensione all'innovazione e alla collaborazione dei piccoli imprenditori, forte carenza di infrastrutture e dei servizi di base – urge un'azione efficace e perentoria di salvaguardia e promozione delle attività rurali, creatrici di un forte valore aggiunto a tutta l'economia della provincia. L'artigianato ha saputo conquistarsi una sua dimensione, incidendo sulle scelte della politica economica nazionale. Esso vedrà riconosciuta maggiormente la sua importanza quanto più sarà capace di trasformare bene la “materia” e di acquisire strumenti necessari per affrontare le grandi sfide del terzo millennio (globalizzazione dei mercati, e-commerce, ammodernamento del rapporto Stato e privato…). All'interno di questo sotto-settore può – e non solo in quanto doveroso impegno storico-culturale – trovare spazio l'artigianato tipico delle aree rurali. Quest'ultimo, simbolo di culture locali antiche, ha da sempre offerto esempi produttivi di qualità che trascendono la classica distinzione fra arte e artigianato e che si rifanno a tradizioni di una preziosa manualità in grado di trasformare anche le risorse più povere.
Pregna di storia è l'arte della ceramica, che necessita di fasi operative sostanzialmente immutate nel tempo: la preparazione dell'impasto di argilla, la modellazione dell'oggetto a mano, al tornio o a stampo, l'essiccazione all'aria o in determinati ambienti, il rivestimento della superficie per renderlo impermeabile, la decorazione e la cottura. I boccali e i “bumbuli” rievocano, spesso, le guise dei recipienti arcaici della Megale Hellas e dell'antica Roma. La produzione è ricca e variegata; risaltano le maschere apotropaiche, le smaltate di Bisignano, le figurine di arti e mestieri lavorate a Rogliano, le ceramiche di Belvedere, caratterizzate da motivi floreali di stampo bizantino, i vasi di Altomonte e Roseto. Sovente si va al di là della mera funzionalità del prodotto. I ceramografi, privilegiando la decorazione nel rapporto con la forma, fanno di questi oggetti testimonianze di dipinti eccellenti. Le ombre e le sfumature conferiscono plasticità e volume, gli effetti di luce e il contrasto dei colori creano figure di reale valenza pittorica.
Arte e folklore si fondono nelle creazioni dei liutai di Bisignano: liuti, violini e - fiore all'occhiello, nonché parte integrante della musica tradizionale dell'intero meridione - la “chitarra battente”, caratterizzata da cinque corde doppie, che, ad ogni battuta di mano, vengono suonate tutte insieme. I segreti di questa nobile attività (tramandata sin dal 1500) si custodiscono nella bottega (posta al centro dell'antico rione della Giudecca) della famiglia De Bonis, maestri liutai di Bisignano famosi in tutto il mondo. Sapienza nella scelta dei legni (ebano, acero riccio…), invecchiati e trattati con vernici speciali, proporzioni nelle misure e raffinatezza della linea, decorazioni che esaltano la vibrazione dei materiali, rappresentano fattori indispensabili per la creazione di pezzi unici di rarissima qualità che ci richiamano alla mente i cantastorie del folk calabrese come Otello Prefazio, Rocco Jenco e Danilo Gatto. La figura di questi “narratori popolari”, che hanno come antecedenti i cantori del mondo latino, barbarico e i giullari medievali, ha riacquistato importanza dagli anni Sessanta, soprattutto, per il rinnovato interesse verso la “sottocultura delle classi subalterne”. In un periodo di forte inflazione visiva sarebbe, quantomeno, fascinoso regalarsi il racconto di storie in versi (poco importa se reali o leggendarie) o ascoltare i più recenti avvenimenti politici attraverso il canto critico e libero di virtuosi della poesia estemporanea e della mnemotecnica.
L'antico artigianato del legno (caratterizzato dalla creazione di oggetti di uso agricolo e domestico) rivive in altre botteghe di centri rurali del cosentino; la produzione lignea di soggetti religiosi, quali il coro di Santa Maria del Castello di Castrovillari, dimora nelle antiche chiese della provincia bruzia. Nei paesi dell'entroterra rimane viva la tradizione della lavorazione del ferro battuto, del rame e del vimine. Un tempo erano gli stessi contadini che in primavera, nelle brevi pause dal duro lavoro dei campi, si adoperavano nella raccolta dei rami di salici e procedevano alla pulitura, utilizzando un apposito strumento ligneo a forma di forcina. Privati di corteccia, i rametti flessibili venivano lasciati ad asciugare sotto il sole, per poter essere poi impiegati, seguendo una precisa manualità, nella creazione di canestri, ceste e sedie.
La tradizione orafa si perpetua nei laboratori della capitale dell'altopiano silano: S. Giovanni in Fiore. Le tipiche collane (jennacche) e le spille dalle diverse forme (a musca, u motro…) costituiscono i gioielli della donna in costume (la pacchiana); quest'ultimo di colore scuro lascia intravedere la camicia bianca (cammisa) ricamata a mano e si completa con il copricapo in lino chiaro (rituartu). Vivace nelle iniziative artigiane, questa cittadina ospita, presso l'Abbazia Florense, il museo etnografico e della civiltà contadina. Della cultura rurale si conservano non solo i segreti dell'oreficeria tradizionale, ma anche le tecniche della lavorazione del legno e quella dei tessuti ricamati con il “tombolo” e dei tappeti, il cui intreccio è il frutto di una tecnica tipica degli artigiani armeni.
Le stoffe calabresi presentano disegni ispirati alle geometrie elleniche, all'arte bizantina e a quella albanese. Le immagini di animali e simboli di arcano mistero, che si rifanno alla cultura araba, rivivono nei tappeti di Cariati. Le coperte e gli arazzi di Longobucco ripropongono momenti della vita paesana e del simbolismo storico (la giustizia, la testa del re…), nonché figure dell'arte moderna.
Anche l'artigianato tessile della provincia bruzia ha i suoi reperti storici: pesi di terracotta per telai, dell'ottavo secolo a.C., scoperti a Corigliano Calabro, località Michelicchio, sono custoditi nel museo civico di Cosenza. Una vasta documentazione attesta l'importanza economica che questo settore ha avuto per il territorio, nel corso dei secoli; Fortunato Stancarone fornisce una interessante descrizione della dell'industrie e manifatture della Calabria Citra della metà del XIX secolo:

Una delle principali produzioni è la seta. Gran quantità se ne raccoglie ne' distretti di Cosenza e di Paola […] Il cotone raccogliesi abbondante in tutta l'estensione della marina del Jonio, come anche in Cassano, Castrovillari, Rossano, e Cropalati. Lavori di bambagia in tele e servigii di tavola, felpe, dobletti, calze, berrettini, fililli […] I zigrini di Longobucco e Bocchigliere, e l'arbascio che si tesse in alcuni casali di Cosenza, sono ricercati anche fuori provincia […][50]


Ancora oggi si utilizzano vecchi telai di faggio e ci si dedica alla lavorazione – un tempo prerogativa della donna di casa – di filati, quali la lana, la seta e il cotone. Si seguono movimenti sincronizzati di mani e piedi per creare la tela di base mentre il ricamo viene eseguito con il passaggio manuale dei fili colorati ad opera delle sole mani. L'allevamento del baco e la trattura della seta, attività fondamentali delle campagne calabresi per circa un millennio (dal IX secolo alla fine del XIX), rispondono a canoni procedurali di un empirismo secolare. Un tempo, si riponeva il seme dei bachi nei pagliericci dei letti ricoperti e riparati; poco distante si lasciavano foglie di gelso necessarie per la sua alimentazione. Se la schiusa non avveniva nel termine previsto, le donne se lo portavano nel petto, “dove la sortita provocata dal calore animale si sollecita”. Conoscenze scientifiche e miglioramenti apportati alla bachicoltura hanno interessato le condizioni dell'allevamento, senza, però, influenzare le metodologie. Il baco emette una bava sottilissima con cui si avvolge formando il bozzolo. La trattura consiste nell’immersione del bozzolo in bacinelle di acqua calda, in modo da sciogliere la sostanza collosa che tiene uniti i fili di seta (la sericina), e formare le matasse di seta greggia. Con l'incannatura si trasferisce il filo da matasse a rocchetti; con la torcitura si uniscono più fili di seta per torcerli insieme e ottenere un filo più resistente da usare per la fabbricazione delle stoffe seriche. F. Stancarone (1848) annotò il momento felice di quest'arte:
[…] la seta e la bambagia vi prosperano così felicemente che, quale e quanta si esporti dell'una e si lavori dell'altra, non è uopo che si dica[51].


L'elevato costo della manodopera, l'intenso uso di pesticidi, l'infestazione della hyphantria cunea, vorace distruttore delle foglie di gelso, sono alcune delle cause del crollo della bachicoltura. Oggi, l'interessante prezzo del bozzolo efficacemente sostenuto dall'intervento comunitario e la forte necessità di seta greggia dell'industria serica di trasformazione inducono all'ottimismo sulle prospettive della bachicoltura. La promozione dell'antica e gloriosa tecnologia serica rappresenta una sfida economica, culturale e ambientale.
Va da sé che un intervento volto a valorizzare attività che rimandano ad un ricco patrimonio di tradizioni, capacità e conoscenze, devono essere inserite in un contesto strategico generale. La regione calabrese presenta - oggi - caratteri di una società diafasica, con una composizione sociale che se da una parte si dimostra effervescente, rifacendosi a modelli congruenti con una comunità avanzata, dall'altra rimane ancorata ad un “continuismo inerziale”, partigiano di una forte resistenza all'innovazione. Le singole aziende devono necessariamente fronteggiare un percorso rivoluzionario, in cui le nuove tecnologie risultano essere fattori in grado di stravolgere il normale rapporto competitivo. La internet economy schiude nuovi orizzonti alla comunicazione e alla collaborazione. La partecipazione, in tale direzione, delle aziende locali è ancora flebile. In questo quadro sono proprio le istituzioni che dovranno recitare un ruolo determinante di promotori, creando un adeguato “ambiente del distretto digitale”, organizzando ed erogando servizi di network per facilitare meccanismi di relazione.



4. Salvaguardia e valorizzazione della cultura e della produzione rurale.

Rileggendo alcune pagine della storia della stratificazione etnica della penisola bruzia, ci si accorge della costante eterogeneità della sua costituzione sociale. Nella Calabria hanno coabitato, spesso in aperto conflitto, popoli molto lontani per usi, lingua e cultura; d'altra parte le antinomie territoriali della regione hanno finito con l'investire le stesse connotazioni dell'ethos dei suoi abitanti, i tratti più profondamente antropologici della sua identità, nonché le forme di organizzazione politico-istituzionale e le dinamiche della vita produttiva.
E particolarmente a una delle mille facies della terra calabra, quella alpestre, dura, inaccessibile e selvaggia dei rudi Brettii, si è prestata attenzione da parte degli studiosi della “cultura ufficiale”, regionale e non, con la conseguenza di produrre l'immagine di una pseudo-calabresità attraverso un'interpretazione altalenante tra l'orgoglio di un'identità esclusiva e la condanna sconfinante in un vero pregiudizio etnico:

Così il calabrese - irruento ma umile, mite e acuto ma testardo, e ribelle, e addirittura brigante - è venuto ad assumere, tanto nella letteratura quanto nelle convinzioni correnti, un rilievo e una forza di identificazione che poche altre individualità regionali hanno espresso con pari evidenza presso la coscienza diffusa[52].


La cultura d'élite, che produce la boria dei dotti, quasi sempre lontana dai bisogni e dai problemi di una complessa realtà, influenzata forse più che altrove da quanto accadeva fuori della regione, spesso, piuttosto che approfondire la dialettica della condizione dei calabresi con l'esterno e con la storia, si è limitata ad attribuire fuorvianti etichette ad

un mondo che, per uno dei miracoli compiuti dalla fedeltà dell'uomo a sé stesso, conserva i segni di una civiltà che nulla ha in comune con il mondo fisico che la circonda; un mondo nobile come una testa scolpita dagli scavi della Magna Grecia, incrostata di terra, ma che tuttavia rivela tutta un'epoca che paga tributo all'essere umano [...] una terra estremamente civile, dalla lunga storia: una terra che è diventata piuttosto troppo scettica e disincantata[53].


Per molto tempo si è celata, con l'idealizzazione o con il rifiuto aprioristico, una forte miopia nell'osservare il mondo e la cultura popolare, che ha da sempre sottolineato la tragicità dei tanti problemi della classe subalterna e che è stata storicamente negata da un atteggiamento romantico o «culturocentrico e classicentrico».
Se da alcuni autorevoli studi demoantropologici viene individuata della cultura folklorica l'originale essenza e l'ambiguità della sua funzione contestativa e narcotizzante, oggi, da più parti, si continua ad assistere alla strumentalizzazione ed esaltazione del folklore, che non soddisfa solo esigenze di mercato della cultura del profitto, ma che scaturisce anche dalle stesse classi subalterne; fra le motivazioni dell'atteggiamento assunto da quest'ultime è possibile rinvenire:

a) la necessità di mitizzare un tempo storico negativo; b) l'esigenza di opporsi al negativo attuale attraverso il ricorso a un buon tempo antico mai esistito; c) il ritorno al passato come mezzo di difesa nei confronti di un «nuovo» che non si riesce a comprendere o a controllare (questo è tanto più vero per gli emigrati che mantengono immutati usi e abitudini alimentari anche per stabilire un rapporto «ideale» con i luoghi di origine); d) le spinte che provengono dalle classi alte, dalla coltura del profitto, dalle industrie alimentari; e) l'insoddisfazione derivante dall'attuale regime alimentare che fa regredire al passato ecc.[54]


Accertata l'esistenza di una precisa e originaria cultura rurale e della necessità di un approccio serio e di una metodologia nuova per il suo studio; riconosciuta la presenza attuale di una più vasta e composita classe subalterna, legata anche al mondo urbano, la cui difficile decifrabilità viene velata da una superficiale omologazione; ci si è chiesto “che fare delle tradizioni popolari”. Sono state fornite diverse risposte. Di certo non si può demandare ai valori e ai temi della cultura folklorica la risoluzione di tutti i mali e la gestione di una società così complessa quale quella odierna, di una regione da tempo sospesa tra innovazione e conservazione.
Al di là delle giuste osservazioni accademiche sulle verità storiche del mondo contadino e del folklore, nella prospettiva di un possibile sviluppo socio-economico della penisola calabra, sembra essere eccessiva la demonizzazione di certe strumentalizzazioni della cultura popolare (comunque da sempre condizionata da quella dominante), dell'attuale «folk revival della nutrizione», della Calabria dei mestieri e delle botteghe artigiane (che, dopo tutto, custodendo faticosamente conoscenze e tecniche di lavorazione, si contrappongono al pericolo dell'oblio, dell'estinzione di un'arte che proietta nelle sue opere la vita e la cultura di un popolo).
L'antica vocazione agricola opportunamente adeguata alle moderne tecniche e colture, la mitezza del clima e la valorizzazione delle bellezze naturali esaltate da adeguate opere infrastrutturali, ancora da potenziare, e da una ricettività soddisfacente e qualificante dei potenziali flussi turistici nazionali e internazionali, rappresentano la sfida decisiva con cui sempre più dovranno misurarsi i rappresentanti politici regionali, gli amministratori locali, gli intellettuali e gli stessi abitanti. E', questo, l'unico modo per debellare l'atavica tendenza della gente del Sud al vittimismo e al fatalismo, e per costruire una nuova cultura che, comunque,

deve partire dal folklore, inglobarlo, lavorando con le classi subalterne e non soltanto per esse, in una sintesi più ampia e comprensiva[55].


In questo contesto la salvaguardia e la promozione del mondo rurale rappresenta non già un lusso superfluo, ma il vero motore per uno sviluppo economico e sociale. Di contro ai numerosi punti di debolezza del settore agricolo e rurale (basso potere contrattuale delle imprese di microdimensione, non competitività del tessuto economico regionale, forte sottoremunerazione del lavoro) esistono elementi assai incoraggianti.
La caratterizzazione qualitativa delle produzioni, il legame esistente tra un'agricoltura a bassa intensività in grado di rispettare l'ambiente e il territorio cosentino diventano elementi strategici per creare la valorizzazione reciproca del settore e del contesto territoriale in cui questo s'inserisce.
Se da un lato importanti centri turistici, nelle fasce costiere, possono innescare un indotto anche nelle aree rurali collinari, dall'altro l'offerta agrituristica della provincia di Cosenza riscuote consensi, sempre maggiori, rispetto ad una domanda di modelli turistici alternativi ed eco-compatibili. Un nuovo ruolo multifunzionale assegnato al settore agricolo e rurale deve far perno su un ricco patrimonio di conoscenze e competenze, sulla tipicità delle produzioni agro-alimentari e su una cultura dell'ospitalità fortemente radicata nel popolo bruzio.
Mondo arcaico, usi e costumi della civiltà rurale non sono stati del tutto spazzati via dall'incedere del progresso tecnologico che finora ha lambito, e spesso negli aspetti peggiori, la terra calabra. Nel saper conciliare passato e presente senza, pertanto, nostalgicamente ostinarsi a vivere di ricordi, ma senza acriticamente esaltare il nuovo, consiste l'unica via di uscita dall'emarginazione e dall'arretratezza:

riappropriarsi del proprio passato non significa automaticamente disperdere il proprio impegno innovatore nel chiuso circuito di astratti furori e vaghe nostalgie, ma iniziare la trasformazione partendo dalla propria realtà, parlando il suo linguaggio e ponendosi in sintonia con essa, senza tentare di calare dall'esterno modelli e schemi preformati entro i quali dovrebbe prendere corpo la «nuova» vita del sud[56].


Va, dunque, con saggezza e lungimiranza, effettuata la riscoperta delle radici di un mondo sommerso, non già inteso come retaggio di altri tempi, reperto sociologico da esporre in un museo, bensì come rilevazione di un uso adeguato della funzione contestativa della cultura popolare e delle motivazioni e speranze di una gente dimenticata. Per tale via, soltanto, il mondo della natura e della storia può diventare il luogo da cui estrapolare valori fondamentali per l'effettivo sviluppo, in ogni campo, della regione. Una volta stabilito socialmente, il sistema assiologico fa appello, per la sua concreta realizzazione, all'azione dell'uomo. Pertanto diventa necessario da un lato impegnarsi a far parte della comunità nazionale ed europea senza rinunciare alla propria identità, e dall'altro custodire e tramandare alle future generazioni una conoscenza che sappia trasformarsi in cultura operativa, edificando una polis della memoria da visitare costantemente.


[1] A. Vallega, Compendio di geografia regionale, Milano, Mursia, 1986, pp. 35-37.
[2] R. Peroni, Enotri, Ausoni, Itali e altre popolazioni dell'estremo Sud d'Italia, in Italia omnium terrarum parens, Milano, Scheiwiller, 1989, pp. 137-140.
[3] Ibidem, pp. 144-147.
[4] A. Stazio, Moneta e scambi, in Megale Hellas. Storia e civiltà della Magna Grecia, Milano, Garzanti-Scheiwiller, 1986, p. 114.
[5] A. Maiuri, Mestiere d'archeologo, a cura di Carlo Belli, Milano, Garzanti Scheiwiller, 1986, p. 510.
[6] A. Stazio, op. cit., p. 115.
[7] M. Lombardo, I Brettii, in Italia omnium terrarum parens, cit., pp. 249-259, 286-295.
[8] A. Placanica, I caratteri originali, in Storia d'Italia. Le regioni dall'Unità a oggi. La Calabria, a cura di P. Bevilacqua e A. Placanica, Torino, Einaudi, 1985, p. 32.
[9] P. Bevilacqua, Uomini, terre, economie, in Storia d'Italia. Le regioni dall'Unità a oggi. La Calabria, a cura di P. Bevilacqua e A. Placanica, cit., p. 117.
[10] L. De Franco, L'idea di Calabria in alcuni scrittori calabresi del '500 e '600, in Per una idea di Calabria. Immagini e momenti di storia calabrese, Atti del convegno tenutosi a Cosenza nei giorni 27 e 28 Novembre del 1981, a cura di P. Falco e M. De Bonis, Cosenza, Edizioni Periferia, 1982, pp. 156-163.
[11] A. Placanica, Calabria in idea, in Storia d'Italia. Le regioni dall'Unità a oggi. La Calabria, cit., pp.591-592.
[12] V. Teti, Il pane, la beffa e la festa. Cultura alimentare e ideologia dell'alimentazione nelle classi subalterne, Firenze, Guaraldi, 1976, pp. 27,28,73.
[13] A. Placanica, Calabria in idea, in Storia d'Italia. Le regioni dall'Unità a oggi. La Calabria, cit., pp.587-598.
[14] P. Crupi, Letteratura calabrese contemporanea, Firenze, D'Anna, 1972, p.7.
[15] A. Piromalli, “Calabresità” e cultura popolare, in “Problemi”, maggio-agosto 1982, pp.156-172; poi in Per una idea di Calabria. Immagini e momenti di storia calabrese, cit., pp. 131-145.
[16] G. Galasso, Un paese dello spirito, in Genti di Calabria, a cura di P. Siniscalchi e P. De Leo, Roma, Editalia, 1996, pp. 9-10.
[17] C. Daneo, Introduzione alla lettura, in Viaggio nella Calabria Citeriore dell'800. Pagine di storia sociale, edito a cura dell'Amministrazione Provinciale di Cosenza, 1985, pp. 9-11.
[18] G. Soriero, Le trasformazioni recenti del territorio, in Storia d'Italia. Le regioni dall'Unità a oggi. La Calabria, cit., pp. 721-727.
[19] L. M. Lombardi Satriani, Per l'dentità meridionale, in Per una idea di Calabria. Immagini e momenti di storia calabrese, cit., pp. 21-32.
[20] M. Roncioni, in Introduzione all'antropologia culturale, Pisa, Lischi e F., 1966, p.25.
[21] L. M. Lombardi Satriani, Antropologia culturale e analisi della cultura subalterna, Milano, Rizzoli, 1980, pp. 58-60.
[22] Ibidem, p. 112.
[23] A. Piromalli, “Calabresità” e cultura popolare, cit., pp.156-172; poi in Per una idea di Calabria. Immagini e momenti di storia calabrese, cit., p. 141.
[24] L. M. Lombardi Satriani, Antropologia culturale e analisi della cultura subalterna, cit., p. 200.
[25] C. Lombroso, In Calabria, in P Siniscalchi - P. De Leo (a cura di), Genti di Calabria, cit., pp.229,230.
[26] V. Teti, Il pane, la beffa e la festa. Cultura alimentare e ideologia dell'alimentazione nelle classi subalterne, cit., p.218.
[27] M. Pretto, La pietà popolare in Calabria, Cosenza, Editoriale progetto 2000, 1988, p.113.
[28] V. Teti, Il pane, la beffa e la festa. Cultura alimentare e ideologia dell'alimentazione nelle classi subalterne, cit., p.338.
[29] Ibidem, p.319.
[30] U. Caldora, La Statistica Murattiana del Regno di Napoli: le relazioni sulla Calabria, in Quaderno di Geografia umana per la Sicilia e La Calabria, Messina, 1960, pp. 37-38.
[31] V. Padula, Persone di Calabria, a cura di C. Muscetta, Roma, Edizione Ateneo, 1967, p.122.
[32] V. Padula, Calabria prima e dopo l'Unità, vol. I, a cura di A. Marinari, Bari, Universale Laterza, 1977, pp.102-103.
[33] P. Camporesi in Il «paese della fame», Bologna, Il Mulino, 1978, p.77.
[34] V. Padula, Calabria prima e dopo l'Unità, vol. I, cit., p.218.
[35] V. Teti, Il paese e l'ombra, Cosenza, Edizioni Periferia, 1989, p. 9.
[36] Ufficio Stampa Assessorato al Turismo della Provincia di Cosenza, la Provincia di Cosenza promuove la I edizione de: "la Fiera dei 100 comuni" 1 - 2 - 3 giugno 2001 Altomonte - Cosenza, in www.provincia.cs.it/Home.nsf/Pagine+web/CentoComuni (consultato il 22.06.2001).
[37] L. Forti e A. Stazio, Vita quotidiana dei Greci d'Italia, in Megale Hellas. Storia e civiltà della Magna Grecia, cit., p. 673, 674.
[38] V. Teti, Il pane, la beffa e la festa. Cultura alimentare e ideologia dell'alimentazione nelle classi subalterne, cit., p.272.
[39] O. Cavalcanti, Panza china fa cantari... Cucina e vini di Calabria, Cosenza, P. Perri , 1977, p. 146.
[40] Ibidem, p. 148.
[41] Ministero delle Politiche Agricole e Forestali, http://www.politicheagricole.it/MiPA/servi...ni/Calabria.htm (consultato il 23.06.2001): …San Vito di Luzzi (DOC) D.M. 17/10/94 (G.U. n. 251 del 26/10/94). In vigneti ben esposti, ubicati nella frazione di San Vito nel comune di Luzzi, in provincia di Cosenza, si produce l’omonimo vino nelle seguenti tipologie:Bianco e Rosso […]Il Verbicaro viene prodotto in parte del territorio dei comuni di Verbicaro (da cui il nome), Grisolia, Orsomarso, San Domenico Talao, Santa Maria del Cedro, in provincia di Cosenza, nelle tipologie:Bianco,Rosso e Rosato.
[42] V. Teti, Il pane, la beffa e la festa. Cultura alimentare e ideologia dell'alimentazione nelle classi subalterne, cit., pp.276, 281.
[43] V. Teti, Il pane, la beffa e la festa. Cultura alimentare e ideologia dell'alimentazione nelle classi subalterne, cit., p.287.
[44] V. Padula, Calabria prima e dopo l'Unità, vol. I, cit., p.120.
[45] F. I. Pignatari, (1894 b), Medicina popolare. Pepe, in “La Calabria”, anno VII, n. 3, 15.11.1894, pp. 18-19.
[46] O. Cavalcanti, Panza china fa cantari... Cucina e vini di Calabria, cit., p. 7.
[47] V. Teti, Il pane, la beffa e la festa. Cultura alimentare e ideologia dell'alimentazione nelle classi subalterne, cit., pp. 299-300.
[48] F. Stancarone, Calabria Citra, in Viaggio nel Regno delle due Sicilie, Napoli, 1848, p. 4.
[49] D. Laudadio Donatella (Assessorato Pubblica Istruzione - Formazione Professionale Attività Culturali - Pari Opportunità e Spettacolo della Provincia di Cosenza), Relazione previsionale e programmatica anno 2001, in www.provincia.cs.it/Home.nsf/Pagine+web/Cultura (consultato il 23.06.2001).
[50] F. Stancarone, Calabria Citra, in Viaggio nel Regno delle due Sicilie, cit., p. 4.
[51] Ibidem, cit., p. 3.
[52] P. Bevilacqua - A. Placanica, Premessa, in Storia d'Italia. Le regioni dall'Unità a oggi. La Calabria, cit., p. XIV.
[53] C. Alvaro, In Italia meridionale i poveri, ancora più poveri, in Il Sud fra cronaca e storia, a cura di L. Troisi, Napoli, Loffredo Editore, 1979, pp.121-122.
[54] V. Teti, Il pane, la beffa e la festa. Cultura alimentare e ideologia dell'alimentazione nelle classi subalterne, cit., p.336.
[55] L. M. Lombardi Satriani, Per l'dentità meridionale, in Per una idea di Calabria. Immagini e momenti di storia calabrese, Atti del Convegno tenutosi a Cosenza nei giorni 27 e 28 Novembre del 1981, cit., p. 29.
[56] Ibidem, p. 27.
fonte: cesaredicola.com
 
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studiolegale
view post Posted on 4/10/2017, 14:04




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